Come in
altri distretti corporei, anche nella mano sono molti i progressi ma non esiste attualmente una protesi “ideale”, pertanto gli impianti possono fallire. Questo nello specifico può avvenire per diverse ragioni: mobilizzazioni (allentamento), infezioni, materiali inadatti, lussazioni o anche fattori propri del paziente stesso.
L’impianto in silicone, grazie al suo basso modulo
di elasticità, appariva in grado di assorbire le forze,
favorendo nel tempo un’apposizione ossea secondaria.
I vantaggi di tale tipo di impianti inoltre era rappresentato da
un tempo chirurgico relativamente breve e da una soddisfacente
funzionalità post-operatoria.
Tuttavia ci sono dei limiti e sono rappresentati dall’impossibilità di ottenere un arco
di movimento simile al normale e dalla rottura degli
impianti.
Alcuni problemi restano ancora non del tutto risolti.
La revisione delle casistiche nei controlli a lungo termine
ha mostrato un’alta percentuale di rottura degli impianti
per cedimento del materiale (che raggiunge il 50% nei
follow-up più lunghi).
Per alcuni infatti le protesi in silicone sono instabili; nella
mano, come in altri distretti anatomici, non esiste una
stabilità intrinseca dei capi articolari, i quali, privati degli
elementi tendinei e legamentosi, tendono a
dissociarsi.
Molto si è discusso negli anni ’80 e ’90 sul rischio di
siliconite locale e/o sistemica, ossia sulla formazione di
cisti ossee reattive a reazione da corpo estraneo a microparticelle
di silicone, pertanto i modelli in silicone sono stati ritirati dal
commercio e sostituiti da analoghi in titanio.
Il rilascio di detriti e la fagocitosi secondaria sono gli
eventi chiave della reazione siliconitica che appare quindi
legata non al materiale intrinseco, ma al rilascio di particelle
da parte dello stesso.
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